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Disagio mentale e disagio sociale

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Disagio mentale e disagio sociale

Quando siamo alle prese con un disturbo psicologico, pensiamo che, poiché il problema riguarda la nostra psiche, c’è qualcosa che non funziona dentro di noi, ed è dunque responsabilità nostra trovare una soluzione. Ecco che noi terapeuti andiamo a vedere cosa la persona può fare per stare meglio; ed è giusto. C’è sempre una parte di potere che noi abbiamo nel decidere come vivere ciò che ci accade.

Voglio soffermarmi ora su ‘una parte‘, e ‘ciò che ci accade‘, perché sottendono aspetti che talvolta sfuggono al nostro pensiero ed alla realtà della cura.

Una parte di potere personale: cosa significa? Che non possiamo scegliere di vivere bene, e siamo nella mani di qualcos’altro (chimica cerebrale o eventi esterni)? Possiamo fare n respiro sollievo: abbiamo davvero la possibilità di fare nuove scelte, ed in terapia scopriamo quali sono e come perseguirle; ciò tuttavia non cambia il fatto che affrontiamo eventi, relazioni, realtà attraverso le quali non possiamo che provare anche, o prevalentemente, emozioni negative, a volte soverchianti. In sostanza, la quotidianità è fatta di eventi piccoli ma anche dolorosi, di relazioni alle volte solo difficili, altre terribili, di realtà sociali o lavorative estremamente provanti. Oggi vi è l’idea pervasiva che possiamo affrontare qualunque cosa vincendo e soprattutto sentendoci e dimostrandoci vincenti; ma è davvero così? La realtà è che adeguarci all’aspettativa di essere persone vincenti, sane, soddisfatte, richiede di scotomizzare esperienze obiettivamente dolorose. Ciò che ci accade, insomma, è oggettivo, e talora non c’è modo di indorare la cosa: è motivo di malessere, e non può non esserlo.

Se nell’affrontare una situazione molto stressante, mi rendo conto che non riesco a viverla in modo ‘vincente’, allora posso pensare di avere io un problema, che risiede proprio nel fatto che non sono in grado di essere soddisfatto in quella situazione. Essere soddisfatti in situazioni difficili o dolorose, tuttavia, equivale a chiederci l’impossibile.

E’ necessario ammettere che alle volte non è possibile esserlo. Facciamo un esempio. Se il mio collega lavora quanto me, ha i miei stessi risultati, ma guadagna di più perché è un uomo, posso lavorare su di me quanto voglio: l’ingiustizia con cui mi confronto quotidianamente non sparirà, sarà sempre lì, e se io funziono come un normale essere umano, continuerò ad esserne infastidita; sì, anche dopo aver ragionato sulle mie possibilità e deciso che mi va bene tenere questo lavoro; sì, anche se cambierò lavoro e ne troverò uno in cui mi pagano di più, perché conserverò il ricordo di un trattamento ingiusto; e pure se ci rifletterò sopra e capirò che non è la cosa più importante della mia vita, che vi sono altre aree che mi danno molta soddisfazione, in ogni caso una parte di me farà i conti quotidianamente con questa realtà sgradevole. Posso infine decidere di lottare per cambiare questa situazione; anche in questo caso, mi scontrero’ con parecchie difficoltà, ed attraversero’ momenti di esaltazione ma anche di scoramento.

E’ un’esperienza frequente sentire persone che riferiscono alla propria incapacità o a proprie lacune (‘è un problema mio’), vissuti molto sgradevoli, con comportamenti che preferirebbero evitare, collegati a situazioni di obiettiva ingiustizia.

Un esempio un po’ diverso. Ho una mole di lavoro eccessiva da sbrigare, in poco tempo, con un coordinatore inaffidabile. Vado in ansia: ho un problema. Sì, c’è un problema, ma è un problema complesso, perché se è vero che posso gestire meglio l’ansia e fare in modo che non si amplifichi, è altresì vero che la condizione sottesa è un problema reale, su cui non ho modo di agire (se voglio tenermi il lavoro, si capisce). A ciò si aggiunge lo stress dovuto all’attribuirsi in toto, ingiustamente, la responsabilità del malessere (gli altri non si lamentano mica…sono fortunato ad avere questo lavoro…se non sono in grado di gestire la situazione, ho qualcosa che non va!).

Un altro esempio: il mio collega mi risponde sgarbatamente tutti i giorni, finché scopro che ha cercato di boicottare il mio lavoro per mettermi in cattiva luce: se mi arrabbio, allora penso di non saper gestire i rapporti lavorativi: dovrei esser capace di rimanere calmo. Una richiesta del genere è chiaramente eccessiva; perché arrabbiarsi, in tal caso, è non solo inevitabile, ma anche utile. Dire al collega che ho visto il suo tentativo di ostacolarmi, potrà dissuaderlo dal farlo di nuovo. Posso chiedere a me stesso di non lanciargli un portapenne, di non reagire con le stesse mosse meschine, ma non di non provare emozioni come rabbia, tristezza, delusione. Posso praticare mindfulness ed essere consapevole dei miei stati d’animo, ma fatto ciò, un corso d’azione può essere più che necessario. Siamo abituati a pensare che le emozioni negative sono ‘sbagliate’ e vanno soppresse: se non facciamo così, manchiamo di equilibrio. Tuttavia qui è la richiesta che ci facciamo ad essere inadeguata, piuttosto che il nostro comportamento.

C’è sempre la possibilità di affrontare il dolore, e prevede di attraversarlo, ascoltarlo, e cercare nuovi modi per farvi fronte, ben ricordandoci che viviamo immersi nella realtà, e questo comporta un continuo movimento ed adattamento, e come se non bastasse, ciò che incontriamo nella realtà in cui siamo immersi può essere crudele, ingiusto, illogico anche. Il mito della persona sana e soddisfatta, insomma, ci sta facendo molto male, portandoci a pensare ad una vita che realmente non è vivibile, sia pure con un percorso di terapia, di consapevolezza, di apprendimento, e chi più ne ha più ne metta.

Chiudo con una citazione dal testo che ha ispirato questo post.

Perhaps we would do well to view the depression, anxiety, and other mental health struggles that most of us grapple with at some point as a sane response to an insane world. This would shift the emphasis for change away from the individual and towards the wider societal structures and cultural messages around us.

This acknowlegement also allows us to engage critically with the mad/sane binary: resisting the sense that we’re completely responsible for our difficulties and the sense that we have no capacity at all to help ourselves.* (Life isn’t binary, Meg – John Barker and Alex Iantaffi)

*Forse faremmo bene a considerare la depressione, l’ansia, ed altre battaglie legate alla salute mentale che la maggior parte di noi incontra ad un certo punto, come una risposta sana ad un mondo insano. Ciò sposterebbe l’enfasi sulla necessità di cambiamento dall’individuo alle strutture sociali ed ai messaggi culturali che ci corcondano.

Riconoscere ciò ci permette inoltre di affrontare in modo critico il binario matto/sano: opponendoci all’idea che siamo del tutto responsabili delle nostre difficoltà (psicologiche, ndt) ed all’idea che non abbiamo alcuna possibilità di aiutare noi stessi. (Ahimè, traduzione mia)


Dott.ssa Valentina Cozzutto
Psicologa Psicoterapeuta a Monza (MB)


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